COMPETIZIONE POSITIVA O NEGATIVA?



Nell’antico mondo greco, civiltà in cui nascono i giochi olimpici, si incoraggiavano i giovani atleti a perseguire l’eccellenza; bisognava essere sempre superiori degli altri, essere i migliori. La famosa frase di Pierre De Coubertin “L’importante non è vincere, ma partecipare”, diventata invece motto delle olimpiadi moderne (1896), incita al superamento di traguardi sempre maggiori, ma sottolinea come obiettivo principale il superamento di se stessi. Secondo De Coubertin “la competizione è un grande momento di lotta solo apparentemente con gli altri, ma in realtà soprattutto con se stessi, che ha come scopo quello di dilatare sempre di più i confini dei propri limiti”.
“Competere” quindi cosa significa?
Sotto il termine “competizione” possiamo trovare sia l’atteggiamento più costruttivo di quegli individui che si impegnano nel loro compito per cercare di migliorare le proprie performance, sia l’atteggiamento disadattivo tipico degli individui che sfruttano ogni occasione per vincere sull’altro e dimostrare la propria superiorità.
La teoria del confronto sociale sostiene che gli altri entrano nella vita di ogni individuo come parte centrale, integrante e funzionale. Nella vita delle persone è quindi sempre presente l’Altro, con cui continuamente ci relazioniamo, ci integriamo, collaboriamo e ci confrontiamo. E’ proprio dal confronto con gli altri che si ottiene un’accurata valutazione di se stessi. Anche in situazioni che non nascono come competitive, gli individui tendono a confrontarsi con gli altri, per stimare se stessi: se vorranno avere una misura “oggettiva” tenderanno a scegliere un altro simile a se stesso; verrà scelto un target meno abile se c’è la necessità di sentirsi migliore degli altri e verrà scelta, invece, una persona migliore se la persona è convinta della propria inferiorità e ha paura di mettersi in gioco.
E’ proprio dal confronto sociale che può nascere la competizione e nella nostra società, è inevitabile. Non esiste nessun ambito dove non esiste: la rivalità esiste nello sport, in famiglia, tra amici, nella scuola, nel mondo del lavoro, in politica…
Ma la “competizione” è positiva o negativa?
Potrebbe essere definita “negativa” quando pone la vittoria come obiettivo assoluto, e quando spinge i partecipanti a infrangere le regole, imbrogliare, usare sostanze doping, falsificare i risultati, sabotare gli avversari o assumere comportamenti distruttivi al solo fine di vincere. La competizione risulta essere “positiva” quando motiva l’individuo a impegnarsi, a crescere e a vincere senza però considerare l’avversario come un nemico da distruggere.
In letteratura, non è più attuale la definizione unitaria della competizione, che la inquadra come quella situazione sociale nella quale gli individui lavorano uno contro l’altro per raggiungere il loro obiettivo di natura esclusiva; era definita dalla contrapposizione con la cooperazione. Da questa concezione, si distacca la prospettiva bidimensionale sostenuta da molti autori: da una parte esiste la “competizione basata sul compito” (task-oriented competition), tipica degli individui concentrati sul compito, che ha come obiettivo principale quello di migliorare la propria performance. Per questi soggetti, la competizione è l’occasione per confrontarsi, conoscersi meglio e imparare; non considerano gli avversari come nemici ma come facilitatori per superare se stessi, che devono essere rispettati. Sono persone che hanno fiducia in sé e mantengono la propria autostima anche dopo un fallimento; vogliono vincere ed avere successo ma non a spese degli altri.
Contrariamente, dall’altra parte, troviamo la “competizione basata sull’altro” (other-reference competition) in cui l’individuo è interessato solo al risultato e il compito è solo uno strumento per ottenere successo. Il soggetto diventa dipendente dalla competizione e vive ogni insuccesso come una negazione del valore personale; è guidato dal bisogno indiscriminato di competere e di vincere ad ogni costo, spesso accompagnato dalla tendenza alla manipolazione, aggressività, sfruttamento e denigrazione degli altri. Spesso sono individui minimamente interessati all’attività o al compito, ma solo al risultato finale; sono guidati dal bisogno di trionfo sugli altri.
E’ impossibile dare una connotazione positiva o negativa al concetto unitario di competizione, ma è possibile distinguere tra uno stile competitivo positivo, costruttivo e uno negativo, distruttivo. “La vera vittoria – sostiene De Coubertin – è quella ottenuta su se stessi. Gli avversari non sono nemici da battere, ma testimoni partecipi che ci consentono di quantificare il nostro sforzo”. Ovviamente non possiamo aspettarci che un atleta olimpico, che ha perso la medaglia d’oro per un soffio possa essere contento di “aver partecipato”, ma possiamo aspettarci che viva costruttivamente questa sconfitta, motivato per provare a migliorare successivamente. La competizione “positiva” spinge alla vittoria, intesa però come risultato, come riconoscimento di un lungo lavoro caratterizzato da miglioramenti costanti su stessi, e non ad una vittoria fine a se stessa.
“Ogni gara –afferma De Coubertin – sviluppa lo spirito competitivo, il gusto della lotta civilmente regolata, l’aspirazione di successo, il bisogno di migliorarsi, lo spirito di sacrificio, il coraggio e la sicurezza psicologica che costituiscono gli elementi indispensabili per l’affermazione individuale nella società”.

Giulia Magnatta - Psicologa e Atleta